Corruzione e identità nazionale

costo-della-corruzione

Sono passati vent’anni dal 1992, l’anno che tutti ricordiamo per Tangentopoli e le stragi di Capaci e via D’Amelio. Soprattutto per molti rappresenta una cesura nello sviluppo della storia nazionale. Il novantadue è comunemente considerato il confine della prima Repubblica; l’anno del mutamento che ha modificato il nostro rapporto con la realtà: i tradizionali riferimenti storico-politici cessano improvvisamente di orientare l’agire e l’identificazione collettivi. Credo che ormai sia giunto il tempo di aprire una riflessione pubblica, coinvolgendo le nuove generazioni, per riflettere su un passato fin troppo incidente nel presente. Come ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli: «Si tratta, in un certo senso, di risalire ai sintomi attraverso l’anamnesi: l’Italia appare come un corpo malato intorno a cui ci si affanna con dolore e preoccupazione. Resta naturalmente aperto… il dubbio se si tratti di una malattia esplosa in un corpo… sostanzialmente sano o se, piuttosto, le origini di questa malattia risalgono alla nascita di questo stesso corpo».

Qual è la malattia? Il coacervo di intrecci politico-sociali-economici, generato dalla corruzione, dietro il quale si nasconde la tendenza alla mafiosità e all’autoritarismo di molti esponenti della borghesia italiana. Dallo scandalo della Banca Romana degli inizi del Novecento, passando per la corruzione di ascari, mazzieri e federali fascisti, fino ad arrivare all’approdo repubblicano con la sistematica trattativa occulta tra pezzi dello Stato e poteri criminali (protetti dall’ombrello della divisione internazionale in blocchi contrapposti). Tanto per ricordare: Portella delle Ginestre, il caso Montesi, la morte di Mattei, il Piano Solo, il golpe Borghese, la vicenda Lockheed, l’assassinio di Moro, la tragedia di Ustica, le morti di Falcone e Borsellino, gli attentanti di Milano, Firenze e Roma. Tangentopoli, in fondo, era la punta di un iceberg. Uno specchietto per le allodole divenuto in breve vulgata popolare. Provate a chiedere ad un passante cosa ricorda di quei mesi. Riceverete una risposta immediata: l’inchiesta di “Mani Pulite”, le arringhe di Di Pietro, l’andatura scomposta di Colombo, l’arguzia di Borrelli, la reazione di Craxi, il crollo dei partiti e, su tutti, lo stereotipo del socialista «mariuolo». La memoria di Tangentopoli è resistente perché ha lasciato emergere “un'altra storia”. Tutti immaginavano, ma nessuno osava evocare, non tanto l’intreccio tra politica ed economia – assunto identitario della partitocrazia divenuta Stato –, quanto, piuttosto, la corruzione fosse diventata parte integrante del contesto istituzionale. Francesco Greco, l’ultimo superstite del pool di Milano, ha recentemente dichiarato: «La tangente… era il punto di incontro. Era la sintesi, sbagliata finché si vuole, e infatti perseguita penalmente, tra la politica e l’imprenditoria… I partiti avevano allora un ruolo di mediazione tra tutti gli interessi del Paese, quello dei cittadini, dei lavoratori, delle imprese, delle chiese e via dicendo». Tuttavia, accettare l’inchiesta giudiziaria come unico paradigma interpretativo costringe a leggere il 1992 come termine di paragone con il quale confrontare l’attuale scadimento morale della politica italiana. Scrive Ilvo Diamanti: «… oggi non riusciamo ancora a liberarci di ciò che è avvenuto perché l’abbiamo rielaborato successivamente, in base a valutazioni retrospettive». E se Tangentopoli non fosse un capo ad quem ma un limes a quo? Se invece di essere stata la fine di una stagione fosse stata la linea di ripartenza di un costume immutabile? Questo significherebbe che la corruzione (come dimostrano i numerosi casi degli ultimi vent’anni) è una struttura di lunga durata che, insieme alle mafie e all’autoritarismo, rappresenta uno dei pilastri della nostra identità nazionale ancora difficile da raccontare.