Cartesio. "Cogito ergo sum", poi però che spreco di talento

Eccone un altro. Si intende un altro impiccato per l’eternità a una frase. Se “il fine giustifica i mezzi” ha regalato a Machiavelli la fama nei secoli dei secoli, “cogito ergo sum” non è stata da meno con Cartesio.

Se però Machiavelli, come sembra, non ha mai pronunciato quella frase e a guardar bene sosteneva tesi rispettabili sul vivere civile e sul comportamento “etico” dei politici; viceversa Renè Descartes, latinizzato in Renatus Cartesius, italianizzato in Renato Cartesio e definitivamente accorciato in Cartesio, a strizzarne il pensiero e l’opera si nota che dietro il famoso paravento ha nascosto l’ennesimo, ripetuto, consueto tentativo di dimostrare l’indimostrabile: l’esistenza di Dio.
Ci sarebbe di che stufarsi. Vero è che la filosofia nasce per dare risposte ai grandi interrogativi che tormentano l’uomo da sempre. Però quando l’interrogativo è sempre lo stesso e quando le risposte sono asfittiche, povere di senso, decisamente impresentabili, allora non se ne può più. Accade come nel calcio. In tanti continuano a cercare di dimostrare che si vince giocando male, chiudendosi in difesa, attendendo l’errore altrui, speculando, fingendo, simulando, ingannando l’arbitro e gli avversari e ritengono anche tutto ciò estremamente nobile e giustificabile; e non invece cercando di imporre il proprio gioco, proponendo, aggredendo, segnando un gol più degli altri. Appunto: dimostrare l’indimostrabile.
Comunque. Il “cogito ergo sum” aveva la sua forza, era una definizione che scuoteva, lasciava traccia. E lo meritava. Semplificando, Cartesio sosteneva che l’uomo può dubitare di tutto, può mettere in discussione tutto; ma il fatto di poter dubitare, dimostrava che almeno del pensiero non poteva dubitare; e dunque, se penso, esisto. Forte. Una vera forza della natura che gli ha regalato giusta fama. Poteva però fermarsi a quel punto? No che non poteva. Sentendosi invincibile è andato oltre. Come quei tecnici ai quali va bene una volta usando i mezzucci, e per tutta la carriera non sanno fare altro: quando affrontano squadre più forti, va anche bene, quando giocano contro squadre più deboli che li ripagano con la stessa moneta, non sanno cosa far fare alle loro squadre. E schiere di commentatori, critici, esperti, tifosi lì con la bocca aperta a chiedersi: come mai? Perché il tal dei tali soffre contro le piccole? Perché il talaltro in trasferta diventa un agnellino? E via discettando senza trovare il bandolo della matassa.
Torniamo a Cartesio. Lui ha voluto cimentarsi con la solita solfa: come dimostrare l’esistenza di Dio. L’indimostrabile. Ecco allora tra rulli di tamburi e applausi scroscianti, la “prova ontologica” di Cartesio, liberamente ispirata nientepopodimeno che alle tre prove ontologiche della scolastica.

Cartesio dixit: siccome l'uomo ha in sé l’idea di Dio, che equivale all’idea della perfezione, ne deriva, seguendo il principio per cui la causa deve essere eguale o maggiore all’effetto prodotto, che l’idea di Dio non può essere un prodotto della mente dell’uomo (il quale esercitando il dubbio dimostra la sua imperfezione), né provenire dall’esterno (di cui potendo dubitare si dimostra l'imperfezione) ma deve provenire necessariamente da un'entità perfetta, estranea all’idea di perfetto che l’uomo ha di lui: cioè Dio. Ritrovate qualcosa di familiare, qualcosa di cui si è parlato nei precedenti post del blog? Ma sì che la ritrovate: se penso una cosa, se ne ho l’idea dentro di me, allora deve esistere. Torna dunque l’esempio del “minollo”, l’animale inventato da Troisi. Se qualcosa esiste perché posso pensarla, allora tutto può esistere. La differenza che aggiunge Cartesio è che se ho dentro di me l’idea di una cosa, questa non può venire né da me (essendo io imperfetto come dimostra il mio dubitare), né da fuori (ne posso dubitare quando voglio).
Di una cosa forse non dubitiamo, a questo punto. “Cogito ergo sum” è creazione da grandi menti. Però, proprio per questo e pensando a quanto scritto, quanto talento sprecato.