Bobby Watson, il jazz ha fatto "Bam"

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C’è un legame tutto italiano che unisce l’alto sassofonista Bobby Watson con il miglior post bop prodotto nella Milano da bere degli anni Ottanta. Un lungo ponte che da Kansas City arriva fino a Milano. Un “appointment” che il sassofonista americano non ha mai tradito, anzi lo ha onorato registrando per la piccola label di Sergio Veschi – la Red Records -  alcuni tra i migliori album jazz. Sarà la sua prima volta a Salerno (lunedì 18 al Modo ore 21.30) e vale la pena ascoltare la sua musica, che negli anni è cresciuta in maniera esponenziale dilatando quella parabola che dal post bop arriva fino ad oggi con spunti moderni di un suono che affonda gli artigli nella cultura nera, afroamericana. Quel jazz, che per dirla con Nicholas Payton definiremo Bam (Black american music) ovvero un suono che racchiude tutti i canoni tipici della musica nera rafforzando quell'identità che sempre più spesso si è dispersa attraverso operazioni commerciali.

Bobby Watson Bobby Watson Bobby Watson

Quando Bobby Watson sbarcò in Italia erano gli anni Ottanta ed era già stato sassofonista dei Jazz Messengers  di Art Blakey (ne fu il direttore musicale). Cioè quel laboratorio musicale nel quale sono cresciute tutte le migliori giovani generazioni di jazzisti. Alla corte dello storico batterista, Watson c’è stato il tempo di registrare undici dischi (da “Gypsy folk tales”  del’77 a “Straight ahead” dell’81). Qualche anno più tardi arriva in Italia e conosce lo storico patron della Red Records , Sergio Veschi. Un incontro a “Le Scimmie” di Milano dove, si racconta, Veschi gli prestò il suo sax contralto per suonare.  Watson aveva già fatto un paio di incisioni come leader di un proprio combo (“Estimated time of arrival” e “All because of you” entrambe per la Roulette) e forte del suo curriculum registra “Appointment in Milano” e “Round Trip” con l’Open Form Trio del pianista Piero Bassini (il trio si completava con Attilio Zanchi al contrabbasso e Giampiero Prina alla batteria).

Bobby Watson jazz e limoncello al Modo

A Salerno, unica tappa in Italia, Watson arriva in quartetto con Richard Johnson al pianoforte, Curtis Lundy al contrabbasso e Eric Kennedy alla batteria per presentare alcune delle musiche contenute nel suo ultimo album (2013), disco tributo al cinquantesimo anniversario della marcia che Martin Luther King fece su Washington DC e a quelle parole “I have a dream” pronunciate nel celebre discorso del 28 agosto 1963. Ma nel viaggio sonoro non mancheranno le pagine più rappresentative della sua carriera; saccheggiando nel vasto repertorio diventato, oggi, già modello per le giovani generazioni di sassofonisti.

Ma chi è Bobby Watson? Tanto per iniziare è docente universitario in molte facoltà e conservatori americani ad iniziare da quello della sua città natale, Kansas City. Subito dopo i Jazz Messenger, Watson è diventato un ricercato musicista, lavorando al fianco di nomi come Max Roach e Louis Hayes, George Coleman e Branford Marsalis, ma anche Sam Rivers e Wynton Marsalis. Oltre a lavorare con una varietà di strumentisti, Watson ha ricoperto un ruolo di supporto per una serie di cantanti illustri e stilisticamente varie, tra cui: Joe Williams, Dianne Reeves, Lou Rawls, Betty Carter e Carmen Lundy, e si è esibito come sideman con Carlos Santana, George Coleman, Rufus e Chaka Khan, Bob Belden e John Hicks.

Nel suo curriculum vanno segnalati anche i quattro album registrati con il quartetto di sassofoni 29th Street Saxophone Quartet. Un progetto straordinario diviso con i compagni di viaggio Ed Jackson, Rich Rothenberg, Jim Hartog. Un titolo su tutti “Milano/NY Bridge”  del 1994 (Red Records) nel quale il gruppo, al pari di un quartetto d’archi, riscrive due standard straordinari come “Chelsea Bridge” e la magistrale “Maiden Voyage”.