Beni comuni: economia dell'abbondanza

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Si sente tanto parlare di Beni comuni come una sorta di palingenesi sociale. In realtà, la loro definizione è ancora una nebulosa giuridico-economica. Il riconoscimento formale dipende dalle convenzioni sociali e dalle istituzioni: un bene diventa giuridicamente comune solo se una comunità si impegna a gestirlo come tale e solo se gli stati (e le corporation) accordano alla cittadinanza il pieno diritto di gestirlo o cogestirlo. Un simile patrimonio può sprigionare una notevole carica innovativa espandendo le iniziative economiche senza scatenare rivalità sociali (cioè possono essere fruiti contemporaneamente da più persone o da comunità di utenti e produttori). Lo snodo è nel rovesciamento della prospettiva: assegnare alle comunità locali un nuovo protagonismo nel campo dei Beni comuni.

Le comunità che si sono battute per la loro difesa (acqua, ambiente, beni culturali, reti infrastrutturali ecc…) hanno dimostrato di consolidare rapporti di fiducia reciproca e di autoregolarsi, sperimentando, per prova ed errori, competenze pragmatiche bottom up. I cittadini hanno interesse a conservare e incrementare i beni comuni perché sono risorse del vissuto quotidiano delle quali hanno esperienza diretta, magari da generazioni, e quindi possono tendere ad una gestione sostenibile e concordata. La politica della ragionevolezza dovrebbe incoraggiare la gestione comunitaria, riconoscendo ai cittadini i diritti di proprietà e/o di gestione o di cogestione dei Beni comuni a partire da quelli immateriali. La conoscenza, infatti, è sia un prodotto che una materia prima, e, quindi, è una risorsa che può essere arricchita all’infinito se circola senza vincoli e barriere. L’economia della conoscenza è perciò un’economia dell’abbondanza che si contrappone all’economia materiale della scarsità. Più gli scienziati e i ricercatori si scambiano conoscenze più è facile che si creino innovazioni e si realizzino scoperte. I tre pilastri del capitalismo - proprietà privata, competizione e mercato - non caratterizzano questa economia emergente che, al contrario, si fonda sulle comunità (e non sulla proprietà privata o su quella statale), sulla cooperazione, e sullo scambio reciproco extra mercato. Le società no-profit potrebbero gestirli vendendo sul mercato il surplus disponibile alle aziende private a prezzi equi e potrebbero ridistribuire i proventi alle comunità: in questo modo i cittadini riceverebbero reddito e si favorirebbe la creazione di un mercato competitivo non monopolistico. Si tratta, in fondo, di credere nella democrazia economica attribuendo alle comunità i diritti di proprietà dei Beni comuni, intesi non come diritti all’alienazione dei beni, ma come co-diritto al controllo strategico e alla gestione operativa. Internet è l’esempio principale di Bene comune: non ha padroni e non è dello stato, ma è gestito direttamente dalla comunità scientifica e dagli utenti.