Ascolta my friend - Consigli neomelodici ad un africano

Salvatore DesideriMy friend - Salvatore Desideri
  
Si chiama Salvatore Desideri. È uno dei tanti giovanissimi neomelodici che appaiono nell’etere attraverso lo schermo delle Tv digitali tematiche (in questo caso monotematiche). Ha il volto incorniciato da due orecchini di finto diamante ai lobi delle orecchie. Il look è casual: camicia a quadri sbottonata sul petto glabro, con un catenina ben visibile e (come una stonatura) occhiali da vista fumé sul volto da ragazzino. La canzone “My friend” è scritta tra gli altri da un veteromelodico quale Nico Desideri (da Marcianise) che divenuto produttore e autore di giovani cantanti in cerca di successo. In questo caso il giovane in questione è il figlio. Il familismo è molto diffuso nel mondo neomelodico, padri e figli, fratelli e sorelle, nipoti, cugini, cognati. Proprio come accade nel mondo delle libere professioni.
Da uno studio televisivo attrezzato per accogliere le infinite interpretazioni musicali dei cantanti neomelodici, Salvatore viene annunciato dalla presentatrice come una giovane promessa. La musica è una melodia orientaleggiante in versione pop.

Ecco il testo (tradotto):

Tu non sei di Napoli.
Questa è la prima volta che ascolti
la musica bagnata dall’acqua di mare.
In questi vicoli, dove si vende l’amore,
tutto è difficile se non sei cresciuto qui.
Vieni dall’Africa per cercare fortuna,
quanti chilometri insieme a tanti bambini.
Hai visto Napoli in televisione,
ma non l’hai trovata!
Sono tempi difficili,
qui si muore facilmente, è cambiata questa città.

Ritornello:

Ascolta my friend,
se vuoi vivere a Napoli,
ascolta my friend,
fatti la croce prima di uscire,
ascolta my friend,
se vuoi lavorare a Napoli,
ascolta my friend,
un pezzo di pane, qui, te lo devi sudare
e mai nessuno, niente può cambiare.
Ascolta my friend,
chi ti ha parlato di Napoli
ascolta my friend,
non ti ha detto tutta la verità

Giri per Napoli con questa borse piene,
roba inutile che non vuole nessuno
e pensi all’Africa che hai lasciato ieri
e sei rimasto qui senza più nessuno.
È inutile nascondere le lacrime.
Prendi la vita come viene.

Ritornello:

Ascolta my friend,
se vuoi vivere a Napoli,
ascolta my friend,
fatti la croce prima di uscire,
ascolta my friend,
se vuoi lavorare a Napoli,
ascolta my friend,
un pezzo di pane, qui, te lo devi sudare
e mai nessuno, niente può cambiare.
Ascolta my friend,
chi ti ha parlato di Napoli
ascolta my friend,
non ti ha detto tutta la verità

La canzone è il consiglio che l’uomo della strada fornisce ad un extracomunitario africano. I primi versi raccontano lo spaesamento di fronte alla olografica città dell’amore, “venduto nei vicoli”, e alla sua melodiosa armonia “infusa” d’acqua marina. Il solito stereotipo della città cartolina. La strofa successiva è una presa di distanza, anche questa pienamente inserita nel luogo comune del vissuto partenopeo: se non sei napoletano non puoi comprendere i meccanismi della città; percorsi contorti che possono integrarti o isolarti a seconda dei quartieri in cui si risiede e delle classi sociali frequentate. La metropoli, ribadisce il giovane neomelodico, non è quella mostrata in televisione, ma una realtà difficile dove è facile morire. Un paio di osservazioni: siamo sicuri che i media rimandano un’immagine positiva di Napoli? Negli ultimi anni le immagini della “monnezza” e dei morti della faida di Scampia hanno fatto il giro del mondo e non credo abbiano prodotto un buon marketing territoriale. Ma la vera novità consiste nell’associare la Napoli ideale della cartolina a quella dove si spaccia e si spara quotidianamente in un mix di inferno e paradiso. Ma forse si tratta ancora di una riedizione del vecchio tema della “città dolente”, bella ma tragica.

Il ritornello è una specie di ricetta che il napoletano offre all’africano per sopravvivere nella magmatica metropoli. I consigli sono una serie di frasi fatte talmente ripetute da divenire una specie di litania proverbiale: «se vuoi vivere a Napoli fatti il segno della croce, se vuoi lavorare a Napoli un pezzo di pane te lo devi sudare». Sembrano le raccomandazioni ‘e zi’ Cuncetta seduta sulla sedia di paglia scassata davanti al basso in vicolo Scassacocchia. Più che una parola di solidarietà per le precarie condizioni di vita, è un monito ad adeguarsi alla mentalità diffusa secondo la quale l’ottenimento di un reddito appena sufficiente (il famoso “pezzo di pane”) è il risultato di una dinamica in cui convergono fortuna, fede religiosa, impegno fisico e una buona dose di sofferenza psicologica, il tutto condito da un prostrante complesso di inferiorità. Secondo questo principio il lavoro diventa “fatica”, un carico disumano che restituisce il minimo in cambio del massimo sforzo. Può essere questa tara concettuale la base della continua ricerca di guadagni eccezionali, da procurarsi senza sudore, che contraddistingue la mitica arte di arrangiarsi? Un modo per eludere la minorità dimostrando una superiore capacità di sfruttare l’alea dimostrando doti innate (compresa la truffa)? Il ritornello si conclude con un’apparente incoerenza: prima si è affermato che «Napoli è cambiata», poi si dice che «mai nessuno, niente può cambiare». Verrebbe da domandarsi, ma allora è cambiata o no? Tuttavia, se consideriamo che il verso è posto in successione ai consigli del ritornello comprendiamo che nessuno può mutare la mentalità dei cittadini e dunque anche se la metropoli si trasforma i suoi abitanti protraggono perennemente alcuni atteggiamenti culturali e stili di vita. Quasi a dire che nessun intervento esterno (urbanistico, ambientale, culturale, civile) può modificare l’identità della “nazione” napoletana radicata e sedimentata nel corso dei secoli. Perciò chi viene da fuori deve sapere che tutto ciò che viene detto e mostrato sulla città non è la verità. Esiste, quindi, una discrasia tra l’immaginario e la realtà, eppure questo immaginario è il propellente principale di ogni testo o racconto relativo al contesto urbano. Metaforicamente: mentre distraiamo l’interlocutore mostrando la cartolina di Napoli, gli rubiamo l’orologio e poi gli diciamo di stare attento ai mariuoli.

L’ultima strofa, prima della ripetizione finale del ritornello, si potrebbe condensare scenicamente con la pacca sulla spalla prima di abbandonare l’africano al suo destino. Qual è il messaggio di saluto? Vendi roba inutile, ti senti perso, pensi al tuo paese e alla tua famiglia, ma è vano disperarsi bisogna prendere la vita come viene. Ovvero, se ti vuoi integrare non conta la tua storia o i tuoi meriti e nemmeno il lavoro che fai (per quanto superfluo appaia), basta solo affidarsi al caso, alle occasioni che si presentano, al di là di qualsiasi collocazione sociale. Infondo, la vita a Napoli è come il gioco del lotto: l’eterna attesa del terno secco che può cambiarti la vita.