Antimafia: il cambiamento necessario

Certificato-Antimafia

Più il tempo passa, più la storia restituisce valore e dignità alla definizione critica di Leonardo Sciascia quando attaccò un certo modo di fare antimafia (e qui da noi anticamorra). I professionisti dell’antimafia oggi sono più forti e numerosi di ieri e tra questi vi si annidano sfacciati opportunisti. All’epoca furono definiti “professionisti” Leoluca Orlando e Paolo Borsellino. Lo scrittore sbagliò i tempi e almeno uno degli obiettivi ma la sua lezione è quanto mai attuale: “l’antimafia come strumento di potere”. Chi la usa come tale può sempre marchiare un odioso avversario con l’epiteto di “mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”. Professarsi antimafiosi è una specie di rito religioso grazie al quale si ottengono le stimmate dell’impegno civile, a prescindere da ciò che si è che si fa nella realtà quotidiana. Quanti vanagloriosi ho visto pomparsi il petto con parole roboanti divenute vuote a furia di essere pronunciate a vanvera. La parola legalità, come scrive Gianfrancesco Turano in “Contrada Armacà”, serve ormai solo a riempire “il budello di maiale” per confezionare una buona salsiccia.

Quanti mitomani e santoni si aggirano indossando il cilicio dell’antimafia, finti modesti, pronti a raccontarti, con tanto di certificato, le minacce ricevute da questo e quello, incuranti di chi realmente subisce pressioni asfissianti e violente da mafiosi veri. Quanti palloni gonfiati fanno a gara per salire su un palco e conquistare l’attenzione del pubblico. Quante scolaresche, stanche e assuefatte, accettano rassegnate l’imbonimento stantio di tromboni sfiatati che riempiono le aule con il rombo della crociata antimafia. Quanti bellimbusti, dinoccolati e imbellettati, siedono nelle poltrone dei salotti televisivi per propagandare la propria immagine prima ancora che il tema in questione. Quanti familiari di vittime innocenti, colpevoli di protagonismo, hanno infangato e infangano la memoria dei propri cari con la falsa testimonianza. Quanti politici rilasciano interviste dichiarando il loro dissenso in maniera convinta, ma sanno che si tratta di una moda a cui adeguarsi. E gli artisti? Lascio la parola a Roberto Alajmo: “Una pletora soprattutto di artisti – cantanti, comici, pittori, scrittori, poeti – che salgono sul piedistallo della legalità. E già solo per questo considerano il talento, se non il genio, come un riconoscimento che si deve loro per la forza stessa del piedistallo su cui si sono piazzati. Non contano l’intonazione, i tempi comici, il gusto del colore, il senso della narrazione, lo stile: conta l’impegno civile. E provate voi a stroncare una carriera costruita sulla base dell’impegno civile. Gente che ha trovato la scorciatoia per il successo, e riesce a farsi seguire sulla base di un semplice ricatto morale: io sono l’antimafia, e tu? Dopo un paio di spettacolini sulle virtù della legalità la tentazione m’è venuta di andarmi a iscrivere alla mafia. C’è un modulo? Dove si firma? Poi passa, per fortuna. Ma sul momento la tentazione viene”. E non dimentichiamo le centinaia di progetti, tutti uguali, finanziati da enti pubblici e privati: i soldi del Pon, del Por, delle fondazioni e delle imprese titaniche che scaricano milioni sperando di scaricare la coscienza. Quali sono gli effetti collaterali? L’uomo della strada, quello che calpesta il marciapiede e che non crede più a nessuno, bofonchia quando vede uno di questi filosofeggiare sulle mafie con il risultato di fare di tutta l’erba un fascio. Svaniscono, con un colpo di spugna qualunquista, tutte le conquiste realizzate: la confisca dei beni, l’assistenza alle vittime, la finanza etica, la crescita del terzo settore, l’empowerment civico, i processi realizzati, i codici approvati e così via. Intanto, le mafie hanno colonizzato il nord (nemesi rovesciata dell’unificazione) e sono soggetti attivi dell’economia globalizzata. Forse è giunto il momento di un esame di coscienza e, imparando la lezione del “gran nisseno”, passare dall’antimafia logorroica all’antimafia delle responsabilità.