Al borgo alpino di Paralup per continuare a resistere

Paralup

La chiamano la Pompei dei partigiani, ma il suo nome è Paralup. Un borgo alpino, tra la valle Stura e la Valle Grana, dove il 20 settembre 1943 si ritirano i primi combattenti antifascisti del Piemonte e, probabilmente, d’Italia. Sedici baite di pietra accolgono una dozzina di uomini guidati da Duccio Galimberti, militante di Giustizia e Libertà. Duccio è figlio di Tancredi, ministro delle Poste con Giolitti e, poi, senatore fascista. Nonostante la posizione del padre non scende a compromessi con il regime. Il 26 luglio 1943, dopo l’arresto di Mussolini, incita i cittadini di Cuneo a continuare la lotta: «… la guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista». Il 12 settembre 1943 non riesce a convincere il comando militare di Cuneo a fronteggiare l’esercito del Reich. Con dieci amici, allora, prende la via della montagna. Si costituisce, così, il primo nucleo del gruppo Italia Libera dal quale nasceranno le brigate di Giustizia e Libertà. Uno dei suoi compiti principali è il reclutamento di nuovi partigiani di cui vaglia la saldezza morale, con la preoccupazione che tra le reclute si annidino spie fasciste. Nel 1944, ferito durante un rastrellamento, è costretto a curarsi, con l’aiuto di una dottoressa ebrea polacca sfuggita ai nazisti, in un rifugio delle Langhe. Quando rientra tra i ranghi è nominato comandante delle formazioni Giustizia e Libertà del Piemonte e rappresentante nel comitato militare regionale. Il 28 novembre 1944, in seguito a una delazione, è catturato a Torino dai fascisti nei pressi di una panetteria dove si cela il comando partigiano piemontese.

Quattro giorni più tardi, nel pomeriggio del 2 dicembre, alcuni funzionari dell’ufficio politico fascista lo prelevano dal carcere e lo trasportano nella caserma delle brigate nere di Cuneo. Galimberti subisce un violento interrogatorio e, dopo innumerevoli sevizie, è ridotto in fin di vita, ma rimane in silenzio per non tradire i compagni. Il mattino del 4 dicembre viene sbattuto su un camioncino e scaricato nei pressi di Centallo dove sarà giustiziato con una raffica di mitra alla schiena. Sono stato a Paralup nel 2011, arrancando sulla neve delle Alpi. Giunto a destinazione ho osservato a lungo le minuscole abitazioni dove si nascondevano i partigiani azionisti. Da lassù si dominano le vallate e la pianura sottostanti. Un luogo ideale per scrutare le mosse dell’avversario e per individuare le vie di fuga in caso di attacco nemico. Camminando faticosamente ad oltre 1300 metri d’altezza ho compreso che la Resistenza, ogni forma di resistenza, comporta sforzo fisico, concentrazione continua, impegno esemplare: sapere cosa fare, dove andare, come agire. Una concreta manifestazione del dovere come sacrificio. Ho compreso che ogni lotta contro i poteri totalitari, fascisti o mafiosi, merita lo sforzo, la concentrazione e l’impegno di ognuno di noi per dare consistenza materiale al tessuto etico della nazione. Ho compreso quante similitudini ci sono tra quei giovani che scelsero la strada dell’antifascismo, a costo della vita, e le tante vittime innocenti falcidiate dalla protervia mafiosa. Uomini e donne a cui va riconosciuto il diritto di essere ricordati come patrioti. Ho finalmente capito che è e sarà sempre più necessario mettere insieme il patrimonio di esperienza della lotta partigiana con quello dell’antimafia civile per raccontare un’altra Italia.