A lezione devono andarci i genitori

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C’era proprio bisogno di un’aggressione armata per scoprire le difficoltà relazionali che si generano dentro la scuola? Li vedo e li ho visti quotidianamente i giovani prepotenti aggirarsi nei corridoi e nelle aule. Non sono una novità, anzi, diciamolo, l’impatto con questi soggetti appartiene al baglio esperienziale della frequentazione scolastica. Qualcuno usa la forza fisica, qualcun altro, più vigliacco, porta il temperino come strumento di potenziale minaccia. Passano le giornate catatonici lasciando scorrere il tempo tra una molestia al compagno più debole, un insulto alla ragazza meno carina e il pestaggio a chi osa ribellarsi perché non intende accettare ricatti morali o soprusi fisici. Sono egocentrici e narcisi credendo di essere intoccabili grazie al proprio status di “ragazzi problematici”, trasformato in scudo sociale. Sfidano i docenti con parole dure e sorrisi beffardi di fronte a una classe ammutolita o divertita delle sue facezie e provocazioni. Sono cattivi fino alla malvagità per reagire alla paura di essere abbandonati, come quei bambini rimasti per troppo tempo al buio senza compagnia, il cui pianto è una lancinante richiesta di aiuto.

Da vecchio studente del Liceo Da Vinci ho cercato nella memoria di raffigurarmi quel passato troppo lontano (la scuola era un’altra a cominciare dall’edificio), ma non sono riuscito a trovare nulla di simile. C’era lo spacciatore, il bullo, il nervoso, il picchiatore, il donnaiolo ma nessuno girava armato. In verità, quando ho visto le foto del pavimento insanguinato ho pensato alle famiglie, ai genitori dell’aggredito e dell’aggressore, allo squarcio nel velo dell’intimità familiare che ha svelato in pubblico una realtà difficile d’accettare. Ma nel sangue scorgo anche la ferita inferta alla missione educativa, ormai agonizzante. Ragazzi immersi nei loro mondo digitali che parlano una “lingua altra”, pur mantenendo lo stesso idioma, e che considerano inutili, o superate, le regole sociali di un mondo incomprensibile. Si stanno formando sotto i nostri occhi eserciti di analfabeti analogici incapaci di decifrare il mondo da cui sono venuti, questo perché, molto spesso, gli insegnati e i genitori non sono in grado di mettere in connessione il loro dominio virtuale con il reale che li circonda. Eserciti reclutati dall’annullamento della funzione pedagogica di scuola e famiglia, i cui modelli culturali sono messi in discussione dal bombardamento mediatico. Sono cresciuto in una famiglia tradizionale, con un padre, ormai ottantenne, che ha impersonato pienamente il suo ruolo, proiettandolo nel mio sistema di valori. Guardo mio figlio mentre dorme. È fanciullo. Dovranno passare ancora degli anni prima che affronti il tunnel delle scuole superiori. Come mi comporterò? Non lo so, ma riandando agli anni trascorsi in famiglia ho compreso che un padre è un padre e non amico. Il padre/amico alla fine rimane succube del suo ruolo perdendo la possibilità di far valere la sua potestà, con autorevolezza, quando è necessaria e inoppugnabile. Mio padre mi ha accompagnato e sostenuto consentendomi di crescere libero ma entro un insieme di regole severe ma benevoli. Credo che questo equilibrio gli arrivi dall’aver perduto il papà a soli nove anni e dalla successiva mortificazione di aver dovuto affrontare in solitudine la prova dell’orfanatrofio (rinchiuso ‘o serraglio, come si diceva un tempo). Non ha potuto continuare gli studi per mantenere la famiglia (unico figlio maschio), per questo ha avuto sempre un grande rispetto per la scuola e l’università, il massimo dono che potesse offrire ai figli: studiare senza l’assillo di dover lavorare. Quando incontrava i professori non osava nemmeno ribattere ai docenti che avevano delle rimostranze nei confronti della “sua carne”. Li guardava mortificato, inghiottiva il boccone amaro e ringraziava; intanto già sapeva cosa fare per impedire l’irreparabile perché la scuola era una cosa seria e andava affrontata con impegno, rispettando il mandato fondamentale: innanzitutto studiare e poi tutto il resto. Negli ultimi anni ho visto troppe volte genitori “amici” difendere figli “ciucci” e “delinquenti” di fronte alle contestazioni dei docenti, fino alle minacce. Si, non ci sono più i professori di una volta, ma anche i genitori non sono più gli stessi.