Giuseppe Mazzini E la “ragion di Stato” sopprime le libertà
L’ideologo repubblicano fu più volte condannato a morte I procedimenti giudiziari per eliminare l’avversario politico
Otto Kirchheimer afferma che l’uso della giustizia per fini politici assume valenza e funzione specifica: tribuna dalla quale isolare l’avversario politico, stigmatizzandolo come nemico. Ciò accade dagli albori della civiltà, ove l’esigenza di libertà individuale si scontra con la ragione di stato e la difesa da parte di questa dell’esistente; a costo del rovesciamento delle garanzie del diritto, consistente nella giustizializzazione della politica, trasformando i conflitti politici, per l’appunto, in controversie giudiziarie.
Ne è esempio, tra tanti, la vita travagliata di Giuseppe Mazzini, più volte processato e condannato a morte senza potersi adeguatamente difendere, dal momento che la sua scelta di preferire l’esilio non ha impedito all’occhiuta macchina giudiziaria di sottoporlo ai suoi riti con una interpretazione del tutto singolare di contumacia.
Anno 1851. La Restaurazione trionfa nuovamente sulla primavera dei popoli del Quarantotto. L’Austria è ancora a Milano, malgrado le Cinque Giornate. La Repubblica Romana è sconfitta. Venezia è crollata sotto la fame e le epidemie causate dal lungo assedio. Tutto sommato, però, anche se la repressione infuria, la rivolta continua grazie ai tanti che sognavano un’Italia libera e repubblicana. Fra questi, Mazzini.
Egli, braccato da tutte le polizie d’Europa, è intanto a Londra a predisporre i suoi piani, per poi trasferirsi a Lugano per preparare l’insurrezione operaia milanese del 1853. Porta già il peso di una prima condanna a morte del Tribunale Militare Sabaudo del 1833.
Mazzini aveva conosciuto la durezza dei metodi polizieschi la prima volta a 25 anni, giovane avvocato e affiliato alla Carboneria. Trasportato in cella a Savona, dopo due mesi di isolamento, è prosciolto per insufficienza di prove ed è allora che deve scegliere fra il soggiorno obbligato o l’esilio.
Sceglie Ginevra e poi Marsiglia, dove fonderà la Giovine Italia; il programma politico è ormai delineato: Italia una, libera, indipendente, repubblicana.
Il sinistro e terribile Spielberg comincia ad affollarsi a seguito delle persecuzioni austriache. Mazzini viene condannato a morte in contumacia. La sentenza dichiarerà nei suoi confronti: «Esposto alla pubblica vendetta come nemico della patria e dello stato».
Non domo, Mazzini organizza l’invasione della Savoia, per poi fondare in Svizzera la Giovine Europa; viene arrestato e rilasciato a condizione di abbandonare il Paese.
La repressione infuria. A Genova viene condannato un giovane marinaio di Nizza, affiliato alla Giovine Italia. Si tratta di Giuseppe Garibaldi.
Le schede segnaletiche di Mazzini si moltiplicano. Il ritratto che ne esce è di un grande volubilitè de langage.
È il 1857. Una nuova condanna a morte lo raggiunge. È l’anno della spedizione di Carlo Pisacane, che deve essere sostenuta da un’insurrezione a Livorno. Sarà un insuccesso; Mazzini sfugge all’arresto. Inizia il processo che dura otto mesi e si conclude con la reclusione per tutti gli insorti, tranne che per Mazzini stesso che sarà, ancora una volta, condannato a morte.
Nel processo, la difesa dell’imputato - sempre ovviamente contumace - sarà affidata alle parole (tristemente inutili, ma decisamente consapevoli di un esito scontato) dell’avvocato Fracassi: «Eccellenze Voi avete sentito chiamar delitto i desideri, i conati a prò della indipendenza italiana».
Mazzini si trova nel frattempo in balia di un confidente della polizia italiana, tale Greco, che lo accusa di nuovi attentati organizzati da Parigi. Presso la Assise della Senna si intenta il processo e l’esule genovese viene condannato- in contumacia, manco a dirlo- alla deportazione.
Tale condanna graverà come un impedimento sfruttato dalla Camera italiana per respingere la convalida della sua elezione a deputato nel 1866 nel collegio di Messina. Vi è da dire che egli farà comunque sapere che non avrebbe accettato mai un mandato che comportasse il giuramento di fedeltà allo statuto piemontese, dal momento che avrebbe invece desiderato di discutere e votare un patto nazionale in un’assemblea costituente liberamente eletta.
Sono trascorsi quaranta anni. A Gaeta, Mazzini entra nuovamente in carcere. Aveva, infatti, preparato un nuovo moto insurrezionale in Sicilia, ma viene arrestato sulla nave in rada.
Verrà liberato per un’amnistia che mai accetterà; addirittura si rifiuterà di scendere dal treno che ferma a Roma, ritenendo il suolo della sua Repubblica profanato dalla monarchia.
Mazzini fu spiato in vita e dopo la morte. Si spense, infatti, a Pisa nel 1872 alle 13,30 e già alle 15,15 il birro che lo sorvegliava telegrafò con zelo da polizia: «Città finora ignora il fatto. Tranquillità completa».
La storia della giustizia politica è, dunque, una storia di procedimenti giudiziari per eliminare l’avversario interno alla competizione, facendo risaltare la peculiarità di questi processi: l’orchestrazione di una grande paura.
Processando il nemico, quindi, nella sua parola e nel suo pensiero, si annulla la sfida - anche solo intellettuale - al potere dominante e la geometria rassicurante di esso torna serena nella sua amorfa pace conservatrice. Capolavoro ideologico e politico del diritto penale del nemico a sostegno di misure autoritarie ed illiberali.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Ne è esempio, tra tanti, la vita travagliata di Giuseppe Mazzini, più volte processato e condannato a morte senza potersi adeguatamente difendere, dal momento che la sua scelta di preferire l’esilio non ha impedito all’occhiuta macchina giudiziaria di sottoporlo ai suoi riti con una interpretazione del tutto singolare di contumacia.
Anno 1851. La Restaurazione trionfa nuovamente sulla primavera dei popoli del Quarantotto. L’Austria è ancora a Milano, malgrado le Cinque Giornate. La Repubblica Romana è sconfitta. Venezia è crollata sotto la fame e le epidemie causate dal lungo assedio. Tutto sommato, però, anche se la repressione infuria, la rivolta continua grazie ai tanti che sognavano un’Italia libera e repubblicana. Fra questi, Mazzini.
Egli, braccato da tutte le polizie d’Europa, è intanto a Londra a predisporre i suoi piani, per poi trasferirsi a Lugano per preparare l’insurrezione operaia milanese del 1853. Porta già il peso di una prima condanna a morte del Tribunale Militare Sabaudo del 1833.
Mazzini aveva conosciuto la durezza dei metodi polizieschi la prima volta a 25 anni, giovane avvocato e affiliato alla Carboneria. Trasportato in cella a Savona, dopo due mesi di isolamento, è prosciolto per insufficienza di prove ed è allora che deve scegliere fra il soggiorno obbligato o l’esilio.
Sceglie Ginevra e poi Marsiglia, dove fonderà la Giovine Italia; il programma politico è ormai delineato: Italia una, libera, indipendente, repubblicana.
Il sinistro e terribile Spielberg comincia ad affollarsi a seguito delle persecuzioni austriache. Mazzini viene condannato a morte in contumacia. La sentenza dichiarerà nei suoi confronti: «Esposto alla pubblica vendetta come nemico della patria e dello stato».
Non domo, Mazzini organizza l’invasione della Savoia, per poi fondare in Svizzera la Giovine Europa; viene arrestato e rilasciato a condizione di abbandonare il Paese.
La repressione infuria. A Genova viene condannato un giovane marinaio di Nizza, affiliato alla Giovine Italia. Si tratta di Giuseppe Garibaldi.
Le schede segnaletiche di Mazzini si moltiplicano. Il ritratto che ne esce è di un grande volubilitè de langage.
È il 1857. Una nuova condanna a morte lo raggiunge. È l’anno della spedizione di Carlo Pisacane, che deve essere sostenuta da un’insurrezione a Livorno. Sarà un insuccesso; Mazzini sfugge all’arresto. Inizia il processo che dura otto mesi e si conclude con la reclusione per tutti gli insorti, tranne che per Mazzini stesso che sarà, ancora una volta, condannato a morte.
Nel processo, la difesa dell’imputato - sempre ovviamente contumace - sarà affidata alle parole (tristemente inutili, ma decisamente consapevoli di un esito scontato) dell’avvocato Fracassi: «Eccellenze Voi avete sentito chiamar delitto i desideri, i conati a prò della indipendenza italiana».
Mazzini si trova nel frattempo in balia di un confidente della polizia italiana, tale Greco, che lo accusa di nuovi attentati organizzati da Parigi. Presso la Assise della Senna si intenta il processo e l’esule genovese viene condannato- in contumacia, manco a dirlo- alla deportazione.
Tale condanna graverà come un impedimento sfruttato dalla Camera italiana per respingere la convalida della sua elezione a deputato nel 1866 nel collegio di Messina. Vi è da dire che egli farà comunque sapere che non avrebbe accettato mai un mandato che comportasse il giuramento di fedeltà allo statuto piemontese, dal momento che avrebbe invece desiderato di discutere e votare un patto nazionale in un’assemblea costituente liberamente eletta.
Sono trascorsi quaranta anni. A Gaeta, Mazzini entra nuovamente in carcere. Aveva, infatti, preparato un nuovo moto insurrezionale in Sicilia, ma viene arrestato sulla nave in rada.
Verrà liberato per un’amnistia che mai accetterà; addirittura si rifiuterà di scendere dal treno che ferma a Roma, ritenendo il suolo della sua Repubblica profanato dalla monarchia.
Mazzini fu spiato in vita e dopo la morte. Si spense, infatti, a Pisa nel 1872 alle 13,30 e già alle 15,15 il birro che lo sorvegliava telegrafò con zelo da polizia: «Città finora ignora il fatto. Tranquillità completa».
La storia della giustizia politica è, dunque, una storia di procedimenti giudiziari per eliminare l’avversario interno alla competizione, facendo risaltare la peculiarità di questi processi: l’orchestrazione di una grande paura.
Processando il nemico, quindi, nella sua parola e nel suo pensiero, si annulla la sfida - anche solo intellettuale - al potere dominante e la geometria rassicurante di esso torna serena nella sua amorfa pace conservatrice. Capolavoro ideologico e politico del diritto penale del nemico a sostegno di misure autoritarie ed illiberali.
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